Parla Eleonora Colpo di Emergency: “A Gaza anche migliaia di morti ‘invisibili'”

La testimonianza dal campo
«Sfollati rimasti senza medicine, affetti da patologie croniche che non possono proseguire le terapie. Essere un operatore sanitario a Gaza è difficile, ma è difficile anche essere semplicemente un essere umano. Mai visto un livello tale di distruzione»

Lei, nell’inferno di Gaza ci vive. Ogni giorno tocca con mano la sofferenza, atroce, indicibile, di una popolazione allo stremo. In tanti parlano e scrivono di Gaza. Pontificano. Impartiscono lezioni, senza aver messo mai piede nella Striscia. Eleonora non è tra loro. Eleonora Colpo è infermiera e opera nello staff di Emergency a Gaza. Emergency è operativa nella Striscia di Gaza da agosto 2024 per offrire alla popolazione assistenza sanitaria di base. È attiva in due cliniche: una si trova nella località di al-Qarara (Khan Younis) ed è stata costruita interamente dalla ong e ha aperto a gennaio 2025 dopo mesi di attesa per l’ottenimento di tutti i permessi necessari oltre alla dichiarazione di deconfliction (il processo di riconoscimento da parte delle forze armate israeliane che quell’area è e sarà esclusa da attività militari ndr); l’altra, che si trova nella località di al-Mawasi, è la clinica di assistenza primaria dell’organizzazione palestinese Cfta (Culture and Free Thought Association) che Emergency supporta.
Nella clinica di al-Qarara il team di Emergency composto da medici, infermieri, ostetriche, visita una media di 200 pazienti al giorno e offre assistenza sanitaria primaria, primo soccorso, stabilizzazione di emergenze medico-chirurgiche e trasferimento presso strutture ospedaliere, assistenza medico-chirurgica di base per adulti e bambini, attività ambulatoriali di salute riproduttiva e follow up infermieristico post-operatorio. Quella di Eleonora è una testimonianza preziosa, toccante, in presa diretta. Al tempo stesso dà conto della straordinaria resilienza di un popolo, della speranza che vive ancora tra le macerie di Gaza.
Campo di sterminio. Inferno in terra…Le definizioni per descrivere Gaza si moltiplicano. Ma per chi vive e opera nella Striscia, cosa è Gaza? Per chi vive nella Striscia, Gaza è casa, anche se martoriata, distrutta e bombardata resta comunque casa. C’è chi vorrebbe rimanere a tutti i costi perché questa è casa sua e c’è anche chi invece avendone la possibilità vorrebbe andarsene. Purtroppo, però, al momento è una casa dalla quale anche volendo non è possibile andarsene. Per chi lavora nella Striscia è uno scenario di guerra come, almeno io, non ne avevo mai visti prima. C’è un livello di distruzione che non avevo mai incontrato, con un’altissima concentrazione di persone che vive in uno spazio che diventa di giorno in giorno sempre più limitato. Si tratta di lavorare in un contesto che è completamente diverso da altri contesti di guerra. Ed è purtroppo una catastrofe umanitaria che va di giorno in giorno peggiorando.
Si muore di bombe, si muore di fame, si muore per mancanza di cure. Che cosa potete vedere dal vostro osservatorio che è la vostra clinica di assistenza sanitaria di base nel governatorato di Khan Younis? Si muore di bombe, si muore di fame, si muore per la mancanza di cure e sicuramente il numero dei morti è una notizia che quotidianamente passa sotto i nostri occhi. Dal nostro osservatorio, che è una clinica di assistenza sanitaria di base, vediamo vittime spesso considerate “secondarie” del conflitto, quelle che vengono definite spesso vittime “invisibili”: chi è stato sfollato da un giorno all’altro ha dovuto lasciare le proprie case e spesso dentro le proprie case ha lasciato le proprie medicine. Quindi ci sono persone con patologie croniche che non possono proseguire le terapie per malattie come il diabete, l’ipertensione. Ci sono persone con infezioni dovute alle condizioni di vita nei campi per sfollati dove si devono spostare a seguito di ogni nuovo ordine di evacuazione. Sono le vittime più difficili da contare, ma sono in aumento ogni giorno.
Oltre 16mila i bambini uccisi, 28mila le donne e le ragazze. Confermate che la maggioranza delle vittime di questa tragedia sono civili? Noi possiamo raccontare quello che vediamo tutti i giorni nel nostro lavoro. Vediamo che a seguito dell’aumento e dell’espansione degli ordini di evacuazione per alcune zone aumenta il numero di sfollati che vengono ad abitare nella zona dove lavoriamo noi ad al-Qarara. E con l’aumentare di persone in quella zona abbiamo visto un aumentare di pazienti che vengono in clinica da noi per la prima volta. Più di un terzo dei nostri pazienti sono donne e bambini.
Qual è al momento la situazione a livello di ingresso di aiuti umanitari e di distribuzione? Al momento c’è stato l’ingresso di aiuti umanitari dopo oltre due mesi di blocco totale, ma in modo molto limitato. Durante il cessate il fuoco ricordiamo che entravano circa 800 camion di aiuti umanitari al giorno, contenenti cibo, beni di prima necessità, materiale sanitario. Da quando hanno riaperto l’ingresso degli aiuti, sono entrare poche che centinaia di camion, un numero molto limitato che non è abbastanza per far fronte alle necessità della popolazione. Tutti finora contenevano o alimenti o in bassa percentuale materiale sanitario. Noi finora non abbiamo ancora ricevuto nulla, e stiamo andando avanti con le scorte che avevamo dal precedente cessate il fuoco e che però si stanno piano piano esaurendo. Iniziano a mancare antibiotici, antivirali, farmaci per curare la scabbia che è tra le patologie più diffuse al momento a causa delle condizioni igienico-sanitarie in cui si trova a vivere gran parte della popolazione. Auspichiamo fortemente un ingresso costante e più sostanziale di aiuti umanitari. Materiale sanitario, beni di prima necessità, ma anche materiali per costruire tende e sistemazioni per i tanti sfollati.
Tante e tanti gli operatori sanitari uccisi. Così come i giornalisti. Com’è essere un operatore sanitario a Gaza? È difficile. È difficile lavorare all’interno della Striscia di Gaza. Io ho lavorato in altri contesti di guerra, in Afghanistan e in Ucraina, ma sono contesti completamente diversi. Le limitazioni che abbiamo qui dovute soprattutto a motivi di sicurezza sono molto grandi. Limitazioni anche nell’approvvigionamento che quindi vanno a influire sulla nostra operatività. Un tipo di limitazioni che non avevamo magari in altri paesi e in altre zone di conflitto. È difficile e a volte frustrante lavorare in queste condizioni per dare risposta a una popolazione che avrebbe bisogno di tutto e noi, purtroppo, non abbiamo quel tutto da offrire. Quindi sì, è difficile essere un operatore sanitario a Gaza, e diciamo che è anche difficile essere un essere umano a Gaza, stare qui come esseri umani e vedere quello che sta succedendo intorno. È difficile da vedere, da accettare e da comprendere.
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